lunedì 24 dicembre 2012

L'educazione secondo Benedetto: la dignità della persona




Terza e penultima puntata della riflessione sul discorso di Benedetto XVI ai nuovi ambasciatori non residenti del 13 dicembre scorso. 

Nelle precedenti abbiamo condiviso spunti sulla famiglia e sul mondo dell’istruzione

Il testo che propongo ora riguarda la dignità della persona, che Benedetto XVI definisce a partire dall’enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, mettendo bene in luce come per cambiare la società bisogna cambiare l’uomo dato che la pretesa inversa, che sia cioè la struttura della società a mutare l’uomo, è un clamoroso abbaglio, come peraltro segnalano anche autori che abitano mondi molti diversi da quelli della fede e della spiritualità, come ad esempio John C. Miller che nel suo saggio di management DDD la domanda dietro alla domanda spiega che per cambiare gli altri dobbiamo cambiare noi stessi e il modo il quale ci relazioniamo agli altri. Lasciamo la parola al Papa:

La disfunzione di alcune istituzioni e di alcuni servizi pubblici e privati non potrebbe essere spiegata da un’educazione mal garantita e male assimilata?
Riprendendo le parole del mio predecessore, Papa Leone XIII, sono convinto che «che la vera dignità e grandezza dell’uomo è tutta morale, ossia riposta nella virtù; che la virtù è patrimonio comune, conseguibile ugualmente dai grandi e dai piccoli, dai ricchi e dai proletari» (Rerum novarum, n. 20). Invito dunque i vostri governi a contribuire con coraggio al progresso della nostra umanità favorendo l’educazione delle nuove generazioni grazie alla promozione di una sana antropologia, base indispensabile per ogni educazione autentica, e conforme al patrimonio naturale comune. <...> Questi sono passati al vaglio dei secoli e si sono pazientemente costituiti su basi che rispettano l’essenza della persona umana nella sua realtà plurale, restando nel contempo in perfetta sintonia con l’insieme del cosmo”.

Quali sono i valori che insegniamo e che pratichiamo? Siamo affetti anche noi da alcune patologie ahimé spesso tipicamente italiche quali l’amontismo (il problema è sempre a monte), il benaltrismo (il problema è sempre ben altro), il rifiuto del coinvolgimento (questo non è un problema mio) o quell’atteggiamento così comune di perenne lamentela, spesso rancorosa e carica di livore, che si accompagna spesso all’accusa delle mancanze altrui senza mai un briciolo di autocritica o anche solo autoironia, così frequente in rete e nella vita? 
E che dire di quella presbiopia che non distingue i propri privilegi dai diritti acquisiti mentre e pronta a notare i privilegi, presunti, degli altri?

Quali virtù coltiviamo nei figli? In che modo? Siamo consapevoli che la virtù è un abito, (habitus cioè una abitudine), che si costruisce con la ripetizione di atti corretti e che ogni volta che applichiamo a noi stessi e ai nostri figli uno sconto, ci facciamo del male?

Abbiamo chiara questa antropologia che dovrebbe guidarci alla verità sull’uomo e sulla società?

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