venerdì 28 giugno 2013

Come organizzare al meglio i compiti delle vacanze


Certo, le vacanze sarebbero più belle se non ci fossero i compiti da fare! Ogni bambino di ogni epoca lo ha pensato, ma forse non tutti hanno idea che i compiti estivi sono un cruccio anche per mamma e papà. Quando farglieli fare? Perché tormentare un bambino anche dopo che la scuola è finita? 
Pro e contro 
Gli esperti si dividono sull’argomento; alcuni sostengono che continuare a vessare i bambini costringendoli all’attività scolastica anche una volta che la scuola è terminata sia un’inutile tortura, altri ritengono al contrario che la continua esercitazione sia la base per i futuri progressi e che l’abbandono della pratica, anche se per un breve periodo, potrebbe far dimenticare quanto faticosamente appreso durante l’anno scolastico. Forse bisognerebbe stabilire quali sono i compiti più opportuni da assegnare e capire se è davvero utile che un bambino compili per due mesi il fatidico libro delle vacanze estraniandosi da quanto sta vivendo al mare, in montagna o al lago che sia. Magari la visita ad un museo o una piccola ricerca sul luogo in cui si soggiorna li aiuterebbe a mettere in pratica quanto appreso durante l’anno scolastico suscitando anche qualche interesse in più. Perché non invitarli a tenere un piccolo diario delle attività svolte con la famiglia? E poi c’è sempre la lettura, anche per gli adulti quello estivo è il tempo privilegiato per concedersi un po’ di più ai libri, si è più rilassati e sia hanno più momenti a disposizione.
Scegliamo il tempo e lo spazio
Comunque, diario, ricerca o libro delle vacanze che siano bisogna organizzarsi perché il momento dei compiti abbia un suo spazio sia temporale che fisico. Se è vero che i compiti devono aiutare il bambino ad arrivare a settembre senza dare l’idea di essere passato da una "portacancellamemoria", allora è opportuno che questi vengano svolti con continuità per tutto (o quasi) il periodo estivo. Svolgere tutti i compiti entro la fine di giugno non serve a nulla, così come è del tutto inutile rimandarli all’inizio di settembre, giusto qualche giorno prima che ricominci la scuola (a quel punto tutto è già dimenticato). Conviene piuttosto suddividere il lavoro in modo da svolgerne non più di un’oretta al giorno. Scegliete un momento della giornata che possa rimanere tendenzialmente lo stesso per tutta l’estate, ad esempio l’oretta che passa tra il pranzo e l’inizio del pomeriggio in spiaggia, quando i fratelli piccoli dormono e non si può giocare al sole. Trovate un posto in cui il vostro bambino possa stare tranquillo e seduto con la corretta postura e vedrete che sarà anche lui più disponibile al lavoro.
Non demoralizzatelo
Per quanto possiate essere in disaccordo con gli insegnanti circa la quantità di compiti assegnati o la tipologia non fatelo sapere al vostro bambino; frasi come: “ma come farai a finire tutto?”, oppure: “queste operazioni sono troppo difficili” non lo aiuteranno, anzi gli renderanno il lavoro ancora più pesante.Spronatelo invece, chiedetegli di raccontarvi che cosa deve fare e, alla fine, che cosa ha imparato, sentirà che il lavoro che ha fatto è importante. Ricordate infine, che i bambini vanno seguiti da lontano durante il lavoro domestico, non dobbiamo sostituirci a loro, al limite possiamo chiarire dei dubbi, ma svolgere i compiti al loro posto (dettare frasi o suggerire le risposte) non è di alcuna utilità e rende il bambino insicuro ed inconsapevole delle sue reali capacità.
Per gli insegnanti
Un ultimo appello agli insegnanti, maestri o professori che siano, date dei compiti interessanti, in cui vi mettete in gioco voi per primi ed in cui chiedete ai vostri alunni di mettersi in gioco (abbasso ai libri precostituiti) e, per favore, a settembre correggeteli!

mercoledì 26 giugno 2013

Donne in carriera se studiano in classi monogenere

di Tonia Mastrobuoni, La Stampa


In ogni civiltà, la fine della segregazione è sempre considerata un segno di grande progresso. Ma secondo uno studio sorprendente di due economisti italiani, non sempre gli ambienti misti aiutano le donne. E le loro scoperte non riguardano oltretutto un ambiente qualunque, ma la scuola. Una ragazza che si diploma dopo aver frequentato una classe con pochi maschi, ha molte più probabilità di fare carriera e avere un buono stipendio di una sua coetanea che ha fatto il liceo in una classe mista.


Secondo il saggio appena pubblicato dai due studiosi dell'Università della California, Giovanni Peri e Massimo Anelli, è più probabile, cioè, che una ragazza che sia stata in una classe «ad alta percentuale femminile» scelga una facoltà come Economia o Ingegneria piuttosto che Lettere. E la scelta di una facoltà scientifica al posto di una umanistica condiziona enormemente la sua possibilità di fare carriera e di guadagnare tanto. Il discorso, fra l'altro, non vale solo per le donne: anche i maschi tendono a preferire facoltà che garantiscano loro un percorso professionale più soddisfacente, dal punto di vista retributivo, se nei cinque anni di liceo la percentuale di donne in classe è stata bassa.

Lo studio parte da una considerazione quasi lapalissiana: «i redditi e le carriere potenziali delle persone sono fortemente condizionati dalla loro istruzione». Secondo dati del 2011 dell'ufficio di statistica americano, le donne americane che hanno frequentato Ingegneria, un anno dopo la laurea guadagnano circa 55 mila dollari; se hanno preferito Lettere, appena 31 mila. Una differenza talmente enorme da imporre una riflessione, soprattutto perché le donne hanno ormai superato gli uomini in numero di laureati e voti. Ma in America solo il 18% dei laureati in Ingegneria è donna contro il 64% di chi esce da una facoltà umanistica. Insomma, una delle ragioni per cui le donne guadagnano meno degli uomini, è che scelgono le facoltà «sbagliate», se così si può dire.

Peri ed Anelli hanno dunque analizzato 30 mila studenti italiani, per la precisione dei licei milanesi, su un arco di quindici anni, dal 1985 al 2000. Hanno esaminato nel dettaglio le loro scelte post-scolastiche, i loro approdi professionali, le loro buste paga. Le conclusioni principali sono tre. La prima è che una quota più alta di persone dello stesso sesso in classe aumenta la probabilità di scegliere facoltà che fanno guadagnare di più. Per le donne aumenta del 5-6 per cento, per gli uomini del 6-7 per cento. Ma lo studio mette in evidenza anche un altro dato interessante: le donne che escono da classi tendenzialmente «unisex» sono anche più brave delle loro coetanee, nel percorso accademico: si laureano prima e abbandonano meno spesso l'università. E dopo la laurea, tendono anche ad avere stipendi migliori. Lo studio prova a ricavare alcune spiegazioni da questi risultati empirici e ne deduce anzitutto che la frequentazione di classi a prevalenza femminili «potrebbe aumentare l'autostima delle donne», come del resto suggerito già da alcuni economisti comportamentisti. In altre parole, scrivono gli autori, la presenza in classe di un'alta percentuale di studentesse «potrebbe migliorare la loro autostima, inducendole a scegliere una facoltà più competitiva, che garantisca guadagni maggiori e tipicamente maschile».

lunedì 24 giugno 2013

Consigli inattuali per la maturità

Per molti ragazzi alle prese con l'esame di maturità oggi è il giorno della terza prova.
Pubblichiamo questo post tratto dal blog di Alessandro D'Avenia Prof 2.0, sperando sia di buon auspicio!

Se Freud fosse stato italiano avrebbe dedicato gran parte del suo trattato sull’interpretazione dei sogni all’esame di maturità.
La sogniamo per tutta la vita, al contrario di altri esami che dimentichiamo un mese dopo averli sostenuti. No, la maturità è incubo per la vita, un incubo capace persino camaleonticamente di aggiornarsi. Se un tempo sognavo di dover sostenere l’interrogazione di matematica al posto di quella di greco (la mia maturità era quella da due materie con i commissari esterni), recentemente ho sognato che dovevo sostenere l’interrogazione di greco con la fu ministra Fornero che, di fronte al mio mutismo, stizzita mi garantiva che avrei pagato più tasse.
L’esame di maturità: un incubo multiforme, proiezione e sintesi di mille altre paure che si sedimentano nei meandri dell’inconscio sotto forma sognata di cangiante commissione inquisitoria e di sempre e comunque fatale inadeguatezza del candidato. Non c’è via di scampo, non ci sono consigli che vi salveranno da quest’esame. Ve la farete sotto, almeno un poco. Ed è giusto così.
Sì, perché non se ne può più di consigli per lenire la sofferenza fisica e psichica quasi si trattasse di un orrore. Quella sofferenza, quella paura, sono giustificate. Perché? Perché si tratta del primo vero serio esame della vita. E la vita è dolce e amara, altrimenti annoierebbe.
Non vi darò consigli su come allentare la tensione: tisane oppiacee, ore di sonno calcolate da algoritmi salutisti, trucchi per suggerire degni del miglior illusionista. Queste cose le sapete prima più e meglio di me. Ogni generazione ha trovato i suoi stratagemmi per superare queste Scilla e Cariddi senza lasciarci la pelle, lo scafo magari sì, ma la pelle no.
Il consiglio è uno solo ed è inattuale: studiate.
Studiate meglio e più che potete.
Preparate la tesina come un vero e proprio capolavoro, come se doveste scolpire la Pietà michelangiolesca.
E non fatelo per il voto o per fregare la commissione.
Fatelo per voi, per essere all’altezza di 13 anni di studi che vi hanno portato fino a lì e – si spera – vi trampolineranno nel futuro.
Fatelo per i vostri genitori che per 13 anni vi hanno seguito e hanno sofferto con voi, sobbarcandosi colloqui, ansie, paure e solenni incazzature.
Fatelo per i vostri insegnanti, quelli bravi, quelli che in questi 13 anni vi hanno dato qualcosa che non dimenticherete e che voi avete l’obbligo gioioso di restituire. 
E ricordate il verso di Shakespeare che ho usato come motto per la maturità dei miei ragazzi: “Quando l’anima è pronta, allora le cose sono pronte”.
Ma gli incubi li avrete lo stesso.

venerdì 21 giugno 2013

Un esempio di solidarietà vera


La casa di Tom Stoops, famoso coach della squadra di football dell'Università di Oklahoma, è nell'abitato di Moore, il sobborgo più colpito dal tornado dello scorso maggio. 
Il tornado che ha distrutto Moore, e una parte consistente della periferia di Oklahoma City, ha provocato 24 vittime, centinaia di feriti e danni per due miliardi di dollari, oltre che allo sfollamento di diecimila persone rimaste senza una casa.

Se tutti ragioneranno come Stoops è probabile che per la ricostruzione non ci vorranno tempi biblici: dopo un appello di solidarietà a tutti gli sportivi davanti alle televisioni, il coach si è calato sulla fronte una visiera per coprirsi parte del volto, ha indossato una maglietta dell'università, si è infilato un paio di guanti e si è unito alle migliaia di volontari che con vanghe e carriole hanno scavato per giorni per liberare Moore dai detriti.


Stando ai racconti di chi c'era, l'anonimato di Stoops è durato una mezz'ora, poi qualcuno, incuriosito, ha abbassato il capo per guardare sotto alla visiera e l'ha riconosciuto. 
Ma il coach, celebre e milionario, ha continuato a scavare nel silenzioso rispetto generale, e senza il tweet del direttore della comunicazione dell'Università di Oklahoma difficilmente la notizia sarebbe filtrata.

Solidarietà anonima e quindi vera o raffinatissimo marketing? 
Una breve indagine del personaggio lascia intendere che non abbia bisogno di pubblicità. 
Detto che per uno come lui la possibilità di non esser riconosciuto era inesistente, la popolarità non può certo essere una colpa, specie quando è vissuta in maniera solidale. E dunque... chapeau coach Stoops.


mercoledì 19 giugno 2013

SOS università digitali!! Dove sono?!

iPhone, iPad, tablet, smartphone e chi più ne ha più ne metta. Stiamo vivendo nell'era della tecnologia in continuo sviluppo. Non passano nemmeno 2 mesi che le tecnologie che abbiamo acquistato diventano già superate. E questo fenomeno lo vivono anche i giovani, a partire dai più piccoli che fin dai primi libri da leggere imparano a usare 

Diverterissimo su questo argomento il filmato che trovate a questo link qui sotto, una bambina, probabilmente sotto l'anno o già di li,  alla quale viene mostrato un giornale, prontamente prova ad allargare le foto come farebbe con un tablet, usando pollice  e indice. Non riuscendo, prova e riprova, testando anche le sue dita sulle gambe per vedere se ancora "funzionano"! Sono questi i Nativi Digitali che crescono con la tecnologia nel sangue.




Purtroppo l'università non riesce a star dietro a queste esigenze. Scuole primarie e secondarie si sono attrezzate, o stanno attrezzandosi, ma sembra che questo passaggio evolutivo non sia ancora stato compreso dalle università italiane.
Leggendo l'articolo che proponiamo vedrete come le sedi universitarie italiane non sono ancora state attrezzate per essere all'avanguardia e coprire le esigenze tecnologiche di tutti gli studenti che le abitano.




Nell’era digitale le università sono analogiche

La denuncia arriva direttamente dagli studenti, che usano le tecnologie solo fuori dalle aule. E che ora propongono le loro idee per cambiare

Nel nostro Paese più di 8 studenti universitari su 10 possiedono uno smartphone e un Pc portatile, più di 9 su 10 hanno un profilo Facebook e per loro comunicare in rete è un’attività pressoché continuativa; la loro è dunque una vita quotidiana ad alta vocazione tecnologica, almeno fino a quando varcano la soglia del proprio ateneo, dove incontrano un mondo sostanzialmente “analogico” che sembra essersi fermato nel tempo, molto prima dell’avvento dell’era digitale. È questo il quadro complessivo che emerge dalla ricerca sulla presenza della tecnologia all’interno delle università italiane curata da Future Concept Lab a supporto del progetto Samsung Young Design Award (Syda), il concorso ideato da Samsung Electronics Italia e patrocinato da Adi (Associazione Design Industriale) ormai giunto alla sua settima edizione; un’indagine strettamente legata al tema scelto per la competizione di quest’anno – La tecnologia al servizio dell’educazione per creare la lezione del futuro – che intende appunto scendere sul campo di gara meglio conosciuto dagli studenti, cioè quello della scuola e dell’istruzione, dove si trovano coinvolti in prima persona e sopra cui giocano alcune delle partite più importanti in vista della loro prossima ventura vita professionale.
Spazio ai creativi. Presente sui principali social network – Facebook, Twitter e You- Tube – anche nel 2013 il Samsung Young Design Award sarà articolato in due fasi, con chiusura delle iscrizioni il 16 giugno e conclusione a settembre con la premiazione finale. Per offrire al maggior numero possibile di partecipanti l’opportunità di cimentarsi in questa importante manifestazione, il concorso cambia veste e si apre non più unicamente ai designer, ma a tutti gli iscritti a un ateneo italiano (corso universitario o post-universitario) e ai giovani professionisti con un’età anagrafica non superiore ai 30 anni; saranno loro i concorrenti che si sfideranno nell’ideazione di progetti d’avanguardia con l’obiettivo di realizzare prodotti, applicazioni e servizi derivati dall’universo dell’elettronica ma orientati verso la concezione di nuovi spazi che permettano di sfruttare appieno e migliorare le potenzialità offerte dal pianeta accademico.
Momento privilegiato di confronto e visibilità per dare voce e forma a bisogni e istanze di interesse collettivo, questa edizione del Syda nasce dalla convinzione che innovazione e tecnologia, insieme alla creatività del design Made in Italy, possano ricoprire un ruolo fondamentale nel rispondere alle esigenze del panorama educativo odierno, così vario ed eterogeneo nella sua composizione, ma così unito e compatto di fronte alla coscienza della necessità di un cambiamento che riguarda una molteplicità di fattori spesso concatenati tra loro.
Idee giovani. Ed è proprio questo il quadro di riferimento generale a cui si richiama la ricerca promossa da Samsung e condotta su un campione di 600 giovaniadulti di 19-29 anni – tutti all’interno di un percorso scolastico terziario (università, dottorati, master, accademie ecc.) – costruito per quote, a partire dai dati Istat, a rappresentare la popolazione universitaria italiana totale, distribuita sull’intero territorio nazionale. Una survey da cui emerge come l’ambito accademico, che dovrebbe rappresentare il terreno più fertile in quanto a innovazione e sperimentazione, appaia invece un mondo fermo piuttosto alla prima modernità, con un apparato didattico che fa generalmente uso di strumenti che appartengono al passato più che al futuro.
Uno sguardo al futuro. Perché se da una parte studenti e docenti comunicano tra loro attraverso le email e i canali informatici istituzionali messi a disposizione dagli atenei, dall’altra le lezioni, i mezzi e la misurazione dei processi di apprendimento fanno riferimento a modalità decisamente obsolete. Wi-Fi gratuito e sito ufficiale di facoltà a parte, secondo gli intervistati il resto della tecnologia e dell’offerta formativa non sono sufficientemente sviluppati; la maggioranza degli studenti sottolinea infatti la scarsità di accesso a corsi online (81%) e lezioni in streaming (86,5%), oltre che di lavagne digitali all’interno delle aule (77%), ma anche la mancanza di computer per i professori durante le lezioni (60%) e di Pc a disposizione di aule di studio e di consultazione (65%). Questo a fronte della convinzione diffusa che gli strumenti tecnologici serviranno sempre più a migliorare sia l’insegnamento che l’apprendimento (80,5%), ma – più in generale – a semplificare anche la vita quotidiana (62%), piuttosto che come mezzo per esprimere se stessi o la propria personalità, al punto che la metà degli intervistati ritiene che intuitività e immediatezza d’uso siano i requisiti fondamentali da richiedere alle nuove generazioni di apparecchi elettronici. Lo spazio per colmare il gap analogico/digitale appare dunque davvero notevole e questa volta è proprio ai giovani che Samsung lascia non solo la parola, ma anche la matita per disegnare il futuro della tecnologia.

lunedì 17 giugno 2013

Qual è l’età giusta per la prima vacanza da soli dei nostri figli?

Quando è opportuno che i figli comincino a sperimentare una vacanza lontani dai loro genitori?
Forse è meglio prima di tutto che siano gli stessi genitori a convincersi che un breve periodo di distacco dai propri figli fa parte integrante della loro formazione. Non ci si misura con il mondo senza cominciare a esplorarlo, prima accompagnati dalle persone più care e poi, pian piano, con qualche breve soggiorno fuori casa, da amici, con la scuola, con gli scout o altre organizzazioni di provata competenza.
Giorni fa, in una scuola hanno organizzato la «notte dei remigini» per festeggiare il passaggio dalla materna all’elementare. I bambini hanno dormito tutti insieme nella scuola, lontani — si fa per dire — dalle loro famiglie. L’eccitazione e la gioia di questa prima notte fuori casa era visibile in tutti i piccoli che attendevano l’evento da giorni. Un bell’inizio di quella che sarà una lunga serie di nottate passate a casa di amici, viaggi in compagnia o da soli, lontani da Itaca ma con Itaca nel cuore.
Non c’è genitore che affiderebbe a sconosciuti o sprovveduti i propri figli, ma una volta che tutte le precauzioni sono state prese, padri e madri dovrebbero essere contenti che i loro figli comincino a soddisfare il loro bisogno di autonomia e di avventura in un ambiente sorvegliato. L’iperprotettività e l’idea che soltanto accanto ai loro genitori i figli stiano al sicuro sono all’origine di tante difficoltà che i bambini provano a staccarsi da casa. I figli non vanno forzati ad andarsene ma preparati fin da piccoli a considerare l’autonomia e l’avventura come preziosi valori che vengono prima sperimentati con i genitori, poi con gli amici e infine anche da soli. Questo non eviterà che piccoli e grandi avvertano la reciproca mancanza, ma quando si è sicuri che la lontananza non significa perdita, la nostalgia delle persone care non ci impedirà di muoverci e di esplorare, certi come siamo che presto ci incontreremo di nuovo.
I genitori attenti, dunque, cureranno la gradualità dei distacchi e noteranno che i tempi e i ritmi di maturazione non sono uguali per tutti i bambini. Eviteranno quindi di spingere prematuramente i piccoli a separarsi «perché tutti alla loro età sanno stare lontani dalla famiglia».
Rispettiamo i tempi dei bambini ma non dimentichiamo di far capire loro che si cresce mettendosi alla prova, e la provvisoria separazione è una delle prove principali. Tutto questo riuscirà più facile se fin dall’inizio avremo esplorato il mondo con loro, intendendo per mondo la nostra strada, il nostro quartiere, un parco, e se avremo giocato con loro. Il gioco, soprattutto all’aria aperta, è il modo migliore e più naturale per allenarsi alla vita, perché prevede distacchi e unioni, sorprese, avventure e movimento.
Se, vivendo accanto a loro fin dall’inizio della vita, saremo riusciti a conoscerci bene reciprocamente, sarà più semplice capire, quando saranno più grandi, se sono pronti per la prima vacanza da soli. Saranno loro stessi a chiederlo e noi avremo maggiori possibilità di concedere il permesso a ragion veduta, perché hanno già fatto con noi un’esperienza guidata di distacco dalla famiglia. Ecco perché è difficile individuare quale sia l’età giusta per la prima prova di viaggio lontano da casa. Alcuni non sono pronti a 15 anni, altri potrebbero provare già a 10 anni, se i genitori sono sufficientemente sicuri della capacità dei figli di non scambiare l’avventura con la temerarietà, di saper pensare con la propria testa, di non seguire pedissequamente le regole del gruppo.
Più di questo, come genitori, non possiamo fare: non elimineremo certo i rischi dalla vita dei nostri figli ma potremo, nei limiti del possibile, minimizzarli. Le alternative, del resto, sono entrambe perniciose: tenerli sotto le nostre ali senza farli crescere o non dare loro né guida né esempio.

venerdì 14 giugno 2013

Genitori che fanno i compiti?


Quante volte vi sarà capitato di aiutare i vostri bambini a fare i compiti il pomeriggio o la sera? E alzi la mano chi aiutandoli li ha anche "spinti" verso la soluzione giusta prima che ci arrivassero loro? Sapendo che magari non era il modo giusto ma che in quel momento non trovavate nessun altro modo per fargli capire la soluzione! 
Tranquilli, siete in buona compagnia! Alcuni recenti studi fatti dalla commissione di Psicologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore dimostrano che i compiti svolti a casa per la maggior parte delle volte vengono visti come compito più dai genitori che dai figli. 
In una conferenza svoltasi a febbraio, il team della Cattolica formato da specialisti del settore, ha cercato di aiutare genitori e studenti a migliorare questi aspetto spiegando il motivo per cui è importante che siano gli studenti stessi a portare a termine i compiti.
Proponiamo oggi l'articolo di Maria Villone, apparso su Presenze, il bimestrale dell'Unicatt, in cui si spiegano queste motivazioni.



"E' un immagine frequente nella scuola italiana, quella del genitore che a casa svolge i compiti al posto del figlio e ritorna a scuola insieme a lui, gioendo dei successi strappati alla prole e mortificandosi per un brutto voto ricevuto. Il tema dei compiti a casa, una questione da sempre aperta e problematica, è stato affrontato, lo scorso febbraio, nell'ultima iniziativa del Servizio diPsicologia dell Apprendimento e dell'Educazione, dell'Università Cattolica del Sacro Cuore : un' intera giornata, tra conferenze di specialisti e laboratori, rivolta a studenti, genitori e insegnanti per indagare meglio questo territorio ibrido - come ha sottolineato Alessandro Antonietti  (professore ordinario di Psicologia Generale - in cui la scuola si prolunga nelI'ambito famigliare, riscuotendone i più diversi, e talvolta drammatici, effetti. "Individuare il senso dei compiti - ha spiegato Manuela Cantoia - non è sempre facile", proprio perché essi coinvolgono una molteplicità di soggetti che hanno esigenze differenti, ed è tenendo insieme tutte queste esigenze che un insegnante può trovare la ricetta del compito perfetto' un compito che venga impostato a scuola e che sia inerente al lavoro fatto in classe, che necessiti di tempi contenuti e che contemporaneamente contenga una novità stimolante per lo studente; che, infine, ottenga sempre un feedback da parte del docente. Ma le funzioni dei compiti, di cui ha parlato diffusamente Marisa Giorgetti, ricercatrice che si occupa dei temi riguardanti le attività cognitive scolastiche nei bambini, ragazzi, non sono solo inerenti l'apprendimento nelle sue varie modalità, bensì riguardano soprattutto l'allenamento alla fatica e allo sforzo, lo sviluppo del senso di responsabilità e del dovere, I'imparare a gestire il tempo e le informazioni. Per questi motivi è molto importante che anche i genitori sappiano
bene quale ruolo compete loro come ha spiegato Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dell'educazione e dello sviluppo, "Lo studente ha bisogno di sentirsi protagonista della sua esperienza scolastica, perché questo costituisce un importante dispositivo motivazionale ". Ai genitori presenti è stato fornito anche qualche consiglio per attivare buone pratiche in famiglia: ad esempio, meglio stabilire un momento, che sia sempre lo stesso, dedicato ai compiti e che il bambino li svolga in un ambiente privo di distrazioni, facendo riferimento sempre allo stesso genitore' "Meglio i papà delle mamme, che di solito sono più sensibili e troppo coinvolte". Partendo dall'analisi del problema dei compiti, si è arrivati a delineare il ritratto della scuola ideale, una scuola in cui si sviluppi una buona collaborazione tra insegnanti e genitori, entrambi, con ruoli diversi, responsabili della formazione dei ragazzi, "Gli insegnanti - ha sottolineato Annella Bartolomeo - dovrebbero rendersi disponibili ad aiutare i genitori a capire come gestire i il loro ruolo, importantissimo ed enorme:  sostenere la motivazione dei loro figli a migliorarsi e a imparale"."

mercoledì 12 giugno 2013

Incontro con Costanza Miriano a Lodi (prima parte)


"Due povertà che si donano. Questo vuol dire amarsi". Inizia così la chiacchierata con Costanza Miriano, aspirante casalinga (come ama definirsi), giornalista e scrittrice, nonchè mamma e moglie, di cui oggi vi proponiamo la prima parte

Costanza ci parla di cosa vuol dire per lei l'amore, di come spesso le donne stiano a guardare cosa manca loro per sentirsi davvero realizzate, "perchè non sempre la vita di coppia finisce come nei film, col bacio finale".

C'è qualche scorciatoia per fare meno fatica ad essere felici?
Il mio trucco preferito è fare come se tutto fosse perfetto. Come se non ci fossero state discussioni o delusioni che inevitabilmente ci sono nei rapporti.
Il mio riferimento in questo è il comportamento di Pollyanna, un ricordo di quando guardavamo i cartoni animati: anche quando tutto va storto trovava sempre il lato positivo.

Marito o figli? Chi viene prima?
Sicuramente il marito. Anche perchè è nel matrimonio che si realizza la nostra vocazione. L'amore per i figli è istintivo, c'è meno da lavorare giorno dopo giorno perchè è naturale. C'è invece da lavorare per non trascurare il nostro compagno, ed anche per i nostri figli è importantissimo vedere la complicità che esiste tra i genitori. E' rassicurante per loro vedere che si è una cosa sola.

Cosa diresti ad un'amica che nel momento della nascita del primo figlio trascura il proprio marito?
Quando nasce un figlio, a maggior ragione il primo, noi donne è come se fossimo investite da uno tsunami. Trovo che ci siano "molte regole comuni"che andrebbero condannate perchè a lungo andare potrebbero alterare l'equilibrio della coppia. Mi viene in mente la mamma che si siede nel sedile posteriore dell'auto quando il bambino è nel passeggino, oppure portare il piccolo nel lettone in mezzo a mamma e papà.
Le donne tendono a "mammizzarsi" completamente: nei primissimi giorni è inevitabile ma poi "bisogna ricominciare a vivere". Alle mie amiche dico sempre che si hanno 15 giorni per non truccarsi ma poi le tutone devono sparire... bisogna avere cura di certe piccole cose, è un dovere morale per una sposa curarsi per il proprio marito.

Il tuo blog ha circa 2 anni, 2 milioni e mezzo di contatti e 700 articoli... come mai hai così tanto successo?
Pur non essendo un'esperta di social network (non li padroneggio, se ne occupa mio marito) ritengo che siano molto utili a patto di non abusarne perchè fanno perdere molto tempo. Se usati col giusto equilibrio offrono solo grandi possibilità. Ad esempio col mio blog si è creata anche una comunità, nuovi amici che frequento non solo "virtualmente" ma anche in carne ed ossa. Ma d'altronde le possibilità che questi nuovi mezzi offrono sono davvero infinite, basti vedere come influiscano anche nella politica.
Personalmente non approvo però che il Papa abbia un account Twitter, perchè ritengo che ognuno di noi non si debba snaturalizzare, però ripeto fare gruppo sui social network resta una grande opportunità.


lunedì 10 giugno 2013

Pigri, ansiosi e distratti? Studenti no problem, ecco le soluzioni per voi!!


224 pagine scritte per gli studenti che hanno difficoltà nello studio. Difficoltà lievi che per lo più hanno tutti gli studenti: distrazioni, pigrizia, preoccupazioni, blocchi e via dicendo.
Di cosa si tratta? Del libro "Lo Studente Strategico", Alessandro Bartoletti, psicologo e psicoterapeuta che analizza un repertorio di casi nato dalla sua pratica clinica. ( esiste anche il sito internet  che vi consigliamo, essendo altrettanto curato e particolare http://lostudentestrategico.it/)
Non vuole essere un manuale per lo studente perfetto, ma vuole essere un libro che aiuta gli studenti, e i loro genitori, a capirsi e capire le loro difficoltà, proporre soluzioni pratiche adattabili ad ogni studente e cercare di migliorarsi.
Sabato ne ha parlato il Corriere e vogliamo proporvi l'articolo, scritto dal Paolo Di Stefano.
"C’è una strategia per imparare a imparare. Si parte da questo principio: le difficoltà scolastiche non riguardano per lo più le capacità cognitive (apprendimento, memoria, intelligenza) né quelle motivazionali (passione, interesse, etica personale o familiare), ma derivano dal trattamento errato delle difficoltà. È quanto sostiene lo psicologo e psicoterapeuta Alessandro Bartoletti, formatosi in neurobiologia alla Normale di Pisa, autore di un saggio di grande interesse (e, si spera, utilità): Lo studente strategico (Ponte alle Grazie), un repertorio di casi nato dalla pratica clinica.
Il trucco è uscire dal binomio-prigione volontà/capacità, per affrontare la resa scolastica come un problema da risolvere con interventi strategici (secondo un approccio suggerito dalla psicoterapia di Giorgio Nardone e Paul Watzlawick ed elaborata nella Scuola di Palo Alto). In un paese di poeti, navigatori e santi, ma anche di rimandati, impostori e sfaticati, secondo la classificazione di Bartoletti, lo studio è un problema da risolvere.
La tipologia dell’apprendimento inefficace e del conseguente «blocco da performance» è ricca. C’è lo studente incatenato, che si rivela incapace di concentrazione di fonte al libro fino all’immobilità depressiva. Si tratta, spesso, di una risposta al senso di obbligo: è noto che più si percepisce la costrizione, più va scemando la voglia di studiare. Un supplizio. Per lo studente perfezionista, l’impegno diventa pedanteria e dunque paura di sbagliare: la pretesa di avere tutto sotto controllo finisce per creare ansia, attacchi di panico, forme isteriche e catastrofismo.
Per lo studente terrorizzato il vero problema è la sfera sociale: chi non conosce il panico da esame che inibisce la prestazione fino a ridurla a tabula rasa? Lo studente (presunto) incapace è quello condannato a sembrare un «diversamente dotato», inadatto, sostanzialmente inferiore. Con conseguente annullamento dell’autostima, rabbia contro sé e contro gli altri (in genere il prof o i genitori).
Il caso più complicato è quello del cosiddetto «studente-chimera», il cui blocco non è immediatamente identificabile. Esistono diversi stratagemmi che permettono al ragazzo di continuare a fallire efficacemente. Sono i finti rimedi: tra questi, l’essere iperanalitici, il mettersi forzatamente alla prova, aumentare la disorganizzazione, sfogarsi senza costrutto cercando la compassione degli altri, intensificare lo studio in extremis (le maratone notturne), aggirare gli ostacoli, rinunciare (lo «studente coniglio»?), copiare dal compagno (una sorta di doping).
Il peggio arriva quando ci si mettono pure i genitori: padri e madri «criticisti» a priori («Hai preso 30! E la lode?»), insistenti o al contrario soccorritori-sacrificanti; permissivisti incalliti, deleganti (offrire ripetizioni a pagamento), oppure ipergenitori ipercoinvolti e iperansiogeni. Lo stile Pigmalione, lo stile utopista, lo stile etichettante di insegnanti mediocri possono intervenire a complicare le cose, deprimendo l’allievo o creandogli aspettative incongrue.
Dunque, ecco la terapia strategica in una decina di mosse. Concentrarsi su paura e controllo, per arrivare a dominare l’una e l’altro, interrompendo il circolo vizioso che conduce fatalmente all’impasse. «La tecnica principe è la prescrizione dello studio paradossale», avverte Bartoletti. Allo studente si richiede un’applicazione giornaliera molto limitata rispetto alle reali esigenze: il consiglio è di restare seduti davanti al libro per 15, 30, 45 minuti con il divieto di occuparsi d’altro. Progressivamente il tempo aumenterà senza grandi sacrifici. La stessa procedura (speculare) vale per lo studente perfezionista, che dovrà imparare a peggiorare la propria performance, allenarsi all’imperfezione e alla mediocrità per esempio con esercizi di «caco-scrittura». «Per avere successo bisogna prima imparare a fallire» è uno slogan utile da metabolizzare, specie per gli studenti (soprattutto in età adolescente) che vivono un flop in modo traumatico.
Ci sono poi le aquile e i topi: gli studenti iperanalitici per scelta o per carenza di alternative, comunque incapaci di sintesi, ai quali viene ricordata una celebre frase di Saint-Exupéry secondo cui la perfezione si ottiene non quando non c’è più niente da aggiungere, ma quando non c’è più niente da togliere. Imparare a organizzare le conoscenze, tenere sveglia la propria memoria significa personalizzarla il più possibile.
C’è una tecnica per tutto: per esempio per superare l’ansia da esame scolastico si propone la strategia della «peggiore fantasia», applicata in molti contesti diversi: consiste nel provocare volontariamente ciò che spaventa «per annullarlo in modo paradossale», dunque focalizzare l’attenzione su stati d’ansia, tipo tachicardia, asfissia eccetera. Metaforicamente: aggiungere legna perché il fuoco si spenga. È un bene o un male socializzare la propria agitazione? Dipende dal soggetto, a volte parlarne è una strategia liberatoria, altre volte è meglio la congiura del silenzio per non alimentare a dismisura il panico.
E non pensiate che i consigli siano finiti qui. Se siete un testardo, per esempio, e avete l’abitudine di insistere fino all’ossessione su concetti che non riuscite a cogliere o a esprimere in una tesi scritta, secondo Bartoletti vi farà bene imparare il passo del gambero, cioè procedere a ritroso dalla fine all’inizio. Lo studente finalmente diventato «strategico» troverà ogni volta la strategia giusta a evitare la paura, l’ossessione, l’abulia, il disinteresse, la noia."

venerdì 7 giugno 2013

Una grande impresa per un grande fine

Pedalare per la sostenibilità. Cioè per un ambiente non più devastato dal cosiddetto progresso dell'uomo, ma in sintonia con uno sviluppo sopportabile, sostenibile, appunto. Potrebbe essere il tema di una conferenza impegnata, ma per Keith Tuffley, australiano di Svizzera, è semplicemente realtà. 

Keith è australiano, ha 48 anni e vive in Svizzera da quando ne aveva poco più di 40. Fino a qualche tempo fa lavorava in banca, l’economia era il suo mondo, il centro della sua vita professionale.  Ora vive nei pressi di Montreux, con la moglie e i quattro figli, e la sua vita è molto più rilassata. Tranne quando si dedica a progetti a dir poco ambiziosi. 


 La genesi di questa idea, che per molti di noi può sembrare folle, ma che in realtà porta con sé un messaggio incredibile, nasce nel 2009. Keith si era già trasferito in Svizzera e, proprio vicino a dove abitava lui, era di passaggio quell’anno la carovana del Tour de France. Il richiamo del ciclismo è immediato e, mentre i corridori gli sfrecciano a fianco, parallelamente alla sua voglia di sport nascono nella sua testa idee alla rinfusa, che hanno come obiettivo finale quello di sensibilizzare la gente verso la cura dell’ambiente in cui viviamo. 

Un progetto, il Grand Tours Projectche definire ambizioso è un puro eufemismo: percorrere tutte le tappe del Giro d'Italia nello stesso giorno in cui corrono i professionisti. Il che vuol dire mettersi in bici alle sei di mattina e smettere di pedalare alle tre del pomeriggio. Ma il Giro è solo una parte del programma che ha in mente l'australiano. Infatti l'obiettivo della stagione è quello di percorrere tutte le tappe anche del Tour (il Giro di Francia) e della Vuelta (quello di Spagna). Ovvero: 63 giorni in bici come i professionisti, 10.253 chilometri, per un tentativo che ha il vero e proprio sapore dell'impresa. Tutto per lanciare un messaggio forte sulla necessità di proteggere l'ambiente e gettare il seme di una nuova mentalità: quella del progresso sostenibile. "Raccogliere fondi per il WWF, lanciando una battaglia per la salvaguardia del panda è più semplice. Ma cercare di svegliare la mentalità della gente è molto più complesso", dice Keith. 


"La bici è un simbolo meraviglioso, il mezzo ideale per aumentare la consapevolezza sulla necessità di proteggere l'ambiente. Mi piace pensare che il mio messaggio di quasi cinquantenne vada ai coetanei, magari uomini d'affari come me. Gente che ha in mano una piccola o grande fetta di potere, che si entusiasmi e spinga per cambiare l'attuale mentalità distruttiva e arrivare ad un uso intelligente della tecnologia. Il mondo ne ha bisogno. Se la mia iniziativa può servire a questo avrò centrato l'obiettivo".

Dal 4 al 26 maggio ha attraversato la nostra penisola distribuendo il suo lodevole messaggio a favore dell’ambiente. Un terzo dell'impresa è stato fatto... ce la farà a portare a termine la prestigiosa ed inedita tripletta? 




mercoledì 5 giugno 2013

Andare a scuola 3 ore dopo? La campanella suona alle 11 e i voti si alzano, tutto vero?

Sembrerebbe che a Londra i ragazzi, se entrano a scuola alle 11, diventano più produttivi e i loro voti si alzano del 25%.
Tre volte alla settimana i ragazzi liceali entrano alle 11 ed escono alle 17. Un esperimento che ha portato ad ottimi risultati. Potrebbe essere un'idea anche per le nostre scuole italiane?
Chissà che tra qualche anno questa formula sarà trasportata anche nel nostro paese. 
Leggete qui sotto l'articolo, fonte corriere.it, pubblicato il 3 giugno, autore Rino Pucci. (video)

LONDRA – Ragazzi alzatevi, è ora di andare a scuola. Anzi no, restate a letto finché volete, godetevi la quiete della casa, fate con tutta calma una bella colazione e poi i compiti. Alle 11, freschi e riposati, allora sì, andate a scuola. È un mondo un po’ al rovescio, ma adattato alla fisiologia del loro sonno, quello di duecento ragazzi delle ultime classi all’
Hugh Christie Technology College di Tonbridge, graziosa cittadina nella contea del Kent a 60 km da Londra. Tre giorni a settimana, gli studenti del «sixth form» – tra i 16 e i 18 anni – hanno un «late start»: entrano a scuola alle 11 (a volte alle 12) per uscirne alle 5 del pomeriggio. «E a volte facciamo fatica a mandarli a casa», afferma ridendo Mark Fenn, il capo d’istituto: «Non gli pare vero di avere la scuola tutta per sé».

ALLEGRIA A SCUOLA - Tutti contenti a Tonbridge: studenti, genitori e docenti. «Certo, a volte è un po’ complesso mettere a punto il piano delle lezioni, ma gli insegnanti sono stati sempre molto flessibili», dice Fenn. Partito nel 2007 e mai interrotto, l’esperimento dell’Hugh Christie Technology College funziona. I dati sono lì a confermarlo: i voti ai Gsce (gli esami finali di qualificazione) sono migliorati del 25% e la quota di ragazzi che continuano gli studi all’università è passata dal 10 al 50%. «È l’ulteriore riprova che un sistema scolastico modellato sull’orologio biologico degli studenti paga», commenta Paul Kelley, preside oggi in pensione, che, con la sua scuola nel North Yorkshire, è stato il pioniere dell’ingresso scolastico posticipato nel Regno Unito.
IL BIORITMO - Gli adolescenti hanno un ritmo circadiano diverso dagli adulti. Per motivi che la scienza non ha ancora spiegato, hanno bisogno di un «late start», di mettersi in movimento più tardi rispetto ai più grandi. E hanno bisogno di dormire tanto e bene: la ricercatrice statunitense Mary Carskadon sostiene che occorrono nove ore di sonno per una concentrazione ottimale a scuola. «Il sonno non è un lusso o un capriccio, ma una necessità, soprattutto per i più giovani» scandisce il neuroscienziato Russel Foster, che, da direttore delloSleep and Circadian Neuroscience Institute all’Università di Oxford, è un’autorità in materia di sonno e ritmi circadiani. Foster ha in passato condotto ricerche che sono assolutamente in linea con i risultati positivi del college di Tonbridge: «Da anni una consolidata letteratura scientifica, a livello mondiale, mostra che i ragazzi non possono essere operativi alle 8 di mattina, ma l’organizzazione della società moderna, scuola compresa, continua a essere tarata sul bioritmo degli adulti».
L'AUTONOMIA - Nonostante le scuole del Regno Unito godano di ampia autonomia, quello di Tonbridge è un caso molto isolato: gli istituti che hanno adottato il «late start» si contano sulle dita di una mano. Ma la crescente privatizzazione del sistema scolastico britannico sta dando una mano: come è accaduto di recente all’Ucl Academy di Londra, che sull’ingresso posticipato a misura di studente ha costruito un’efficace azione di marketing. Il «late start» fa aumentare il rating della scuola, diventando così una carta vincente per battere la concorrenza: più che la scienza, insomma, sarà il mercato a restituire ai ragazzi il sonno perduto.

lunedì 3 giugno 2013

Il diario è meglio di Facebook


Commenta Anna Frank nel 1942, dal rifugio clandestino in cui vive per sfuggire alle persecuzioni naziste contro gli ebrei: «Per una come me, scrivere un diario fa un curioso effetto. Non soltanto perché non ho mai scritto, ma perché mi sembra che più tardi né io né altri potremo trovare interessanti gli sfoghi di una scolaretta di tredici anni. Però, a dire il vero, non è di questo che si tratta; a me piace scrivere e soprattutto aprire il mio cuore su ogni sorta di cose, a fondo e completamente».
Quel diario non solo le permetterà di emergere dalle strettoie di una convivenza forzata, ma anni dopo, tradotto in quasi tutte le lingue, sarà inserito dall’Unesco nelle Memorie del mondo. Poche ragazzine aspirano a tanto ma il diario rimane ancora oggi la più diffusa forma di scrittura femminile e adolescenziale. Tenere un diario, per lo più scritto a mano, in bella calligrafia e con una ricerca di stile, è una scelta controcorrente nell’epoca del Web, quando si digita per impulso, senza riflettere, senza selezionare.
Premendo rapidamente i pulsanti, i ragazzi cercano di sincronizzare i battiti del cuore con quelli del telefonino, di trasmettere le emozioni nel momento stesso in cui le provano. La scrittura tradizionale richiede invece di attendere il tempo e il luogo più opportuni, sottraendosi alla fretta di concludere, alla tentazione di restare perennemente connessi per sfuggire alla solitudine. 
Il diario costituisce un appuntamento con sé, un incontro programmato con la propria intimità. Spesso, sigillato da un lucchetto più simbolico che reale, pretende il segreto. Anche se «casualmente» viene dimenticato in modo che la mamma lo possa leggere, altrettanto casualmente. Ma non è lei l’interlocutore privilegiato, chi scrive, anche quando evoca un corrispondente immaginario, si rivolge a se stesso nell’intento di scandagliare le parti in ombra della sua personalità e di fissare le ambivalenze e le intermittenze dei sentimenti.
Le pagine del diario sono uno schermo su cui l’adolescente delinea la propria identità in modo creativo e personale, sottraendola alle attese degli altri e agli stereotipi della cultura. In esse palpitano amori immaginari e fantasie erotiche che si confidano solo all’amica del cuore, ma anche spirazioni e i desideri che orientano il futuro. Mentre le comunicazioni digitali si disperdono nella nebulosa mobile e illimitata di una fantasia collettiva, il diario conserva, nella forma autobiografica, l’unicità e la continuità della propria storia.
Durante l’adolescenza, nonostante una progressiva omologazione, i maschi s’impegnano soprattutto nella conquista del mondo esterno, le femmine nell’esplorazione del mondo interno, nella forma romantica dell’introspezione e del sogno d’amore. Prende così forma l’autobiografia, intesa come racconto congiunto dei fatti e delle emozioni, come nucleo stabile di una identità sempre più frammentata nella pluralità dell’Io e nella fragilità delle relazioni. La scrittura periodica del diario consente all’adolescente di operare un distacco critico dalla famiglia senza esasperare i conflitti, senza provocare dolorose lacerazioni. Le immagini dei genitori, mediate dalla scrittura, si allontano e si ridimensionano pur restando insostituibili figure di riferimento, mentre il dolore di vivere si stempera in una narrazione che protegge e cura. Molti anni dopo sarà possibile riconoscere, in quell’opera letteraria in miniatura, il filo rosso della propria vita, quello che ci ha aiutato a diventare al tempo stesso autrici e protagoniste della nostra storia. 
Per molte donne e per tante «piccole donne» il diario rappresenta quella «stanza tutta per sé» in cui Virginia Woolf riconosceva l’ambito di una fragile libertà femminile da proteggere e conservare. Ma la scrittura autobiografica, non è solo una faccenda di donne, serve anche agli uomini per ritrovare ed esprimere la parte femminile di sé.
Per la sua capacità evolutiva andrebbe incentivata nella scuola senza scindere, come spesso accade, l’allievo dall’adolescente, la ricerca di sé dall’apprendimento, l’introspezione dalla conoscenza obiettiva. Il compito di disegnare la propria identità è fondamentale perché dà senso a ciò che chiediamo ai ragazzi e significato ai loro inquieti processi creativi. Accompagnandoli in questa impresa, gli educatori stabiliscono con loro una alleanza che dura nel tempo e che offre , al diventare adulti, un orizzonte possibile e desiderabile.