lunedì 29 aprile 2013

Ascoltare e dialogare, piccole riflessioni


TEMPO E PAZIENZA PER ASCOLTARE E DIALOGARE
Per ascoltare e dialogare occorre tempo. A volte siamo oppressi dalla fretta immaginaria. Andiamo di corsa, senza motivo, semplicemente perché siamo abituati così. Avere il coraggio di saper perdere tempo con i nostri cari. Se una persona ha bisogno di una giornata per parlare diffusamente di una certo problema, sappiamo tirarla fuori: è una giornata d’oro per la famiglia, molto più preziosa, in quella circostanza, di una giornata di lavoro. Se non abbiamo tempo in quel momento, lo diciamo: “Guarda, in questo momento non posso ascoltarti con calma, voglio dedicarmi a te completamente, quindi possiamo parlarne fra due ore? Stasera? Domani?". Dire esplicitamente che non abbiamo tempo in quel momento, anziché ascoltare nervosamente, scalpitando. Tuttavia teniamo presente che anche se abbiamo solo cinque minuti per ascoltare, cinque minuti in fretta, o cinque minuti con calma, cinque minuti restano.


ASCOLTARE IL DOPPIO DI QUANTO PARLIAMO
I rabbini dicevano che le orecchie sono due e la bocca una, quindi bisogna ascoltare il doppio di quanto si parli. Anche dal punto di vista evolutivo è la madre che parla e il bambino ascolta, cioè prima di parlare si riceve tutta una serie di stimoli affettivi, corporei, emotivi, accompagnati da parole, e solo dopo molto tempo il bambino riuscirà  a parlare.

G. Bassi e R. Zamburlin, La comunicazione nel rapporto di coppia, San Paolo, p 32

DOMANDARE AI RAGAZZI…
Abituatevi a porre domande che aiutino ad avviare e sostenere una conversazione.
“Che cosa hai pensato oggi alla fine della partita?”
“Che cosa pensi del programma che abbiamo visto ieri sera?”
“Se fosse possibile, che cosa vorresti cambiare nella nostra famiglia?”

G. Chapman, Famiglie felici, Elledici, p 208


Testi tratti da 
www.comunicareinfamiglia.it










venerdì 26 aprile 2013

"Quando Dio è contento"



Pippo Corigliano presenta per FaesBook il suo nuovo libro “Quando Dio è contento”…
Quando Dio è davvero contento?
Il segreto della felicità è quello di lasciar fare a Dio, e la prima conseguenza è saper voler bene. Anche per questo nel libro si racconta di persone e non si fanno teorie. A tal proposito una persona che ho conosciuto è San Josemaria Escrivà, un uomo che sapeva voler bene, così come Giovanni Paolo II. Certo adesso avrei potuto inserire anche Papa Francesco ma anche Ratzinger perché abbiamo avuto una serie di Papi che sapevano parlare con amore e dell’amore.

Che relazione c’è tra Dio e la felicità?
Un’identità totale. "La creatura sta bene quando è in sintonia con il creatore". Dio ci ha dato il creato, ci ha dato l’esistenza e quindi saremmo sciocchi se continuassimo a fare come Adamo e a fare le cose per conto nostro. E’ invece molto più bello rendersi conto che noi siamo dei poveri uomini che però diventiamo grandi quando ci appoggiamo a Dio… Bisogna imparare ad appoggiarsi a Dio, è questo il vero segreto.

Nel libro si fa accenno al film “The blues brothers”…
“Siamo in missione per conto di Dio”. Così dicono nel film, ed uno dei motivi del suo successo è che ha questa colonna vertebrale, cioè c’è questo filo che regge tutta la trama, e dove questa frase “Siamo in missione per conto di Dio” dà una forza particolare al film, con quel clima surreale e che trasmette un concetto molto chiaro, dove la fiducia dei protagonisti di riuscire è legata a questa missione. Gesù dice “Io mando voi come il Padre ha mandato me” e quindi da qui nasce il concetto che “noi siamo in missione per conto di Dio”.

Si sente di dare qualche consiglio agli studenti e agli insegnanti Faes per conquistare la felicità a scuola e nella vita?
A questo devono pensare i genitori. Io ho una grande ammirazione per i genitori… Quando ho scelto il celibato pensavo di essere un eroe per questa scelta. Man mano che mi rendevo conto di com’era la vita delle persone sposate mi sono reso conto di quanto è una vita davvero eroica. L’unico consiglio che mi sento di dare agli educatori è quello di essere loro i primi ad appoggiarsi su Dio, in altre parole quello di confessarsi, di leggere il Vangelo e di andare a Messa.

mercoledì 24 aprile 2013

Preistorici ma mai così attuali



"C'era una volta l'età della pietra, quando gli uomini stavano nelle caverne per proteggersi dalle bestie feroci e trovare di cosa cibarsi significava rischiare la vita. Tutto era molto diverso, allora, tranne ... l'adolescenza. Eep è la figlia maggiore dei Croods e non ce la fa più ad accontentarsi della mera sopravvivenza; vuole uscire, curiosare, in una parola: vivere. Perché mai tutto ciò che è nuovo dev'essere considerato letale? Eep proprio non se lo spiega e, quando incontra Guy, si mette al suo seguito, rivoluzionando la propria esistenza e quella di tutta la famiglia. 
Sì, perché i Croods sono così uniti che si potrebbero dire appiccicati. Il capofamiglia, un cavernicolo che non ha mai avuto un'idea né ha mai sentito il bisogno di averla, ha fatto della protezione di moglie e figli la sua missione (di strappare la suocera alla morte farebbe anche a meno, ma è inclusa nel pacchetto) e gli animatori della DreamWorks giocano bene e a lungo sulla compattezza del clan, sui problemi che derivano dal dover restare sempre vicini ed uniti, e incollano i personaggi tra loro creando divertenti effetti a catena e rovinosi effetti "elastico", più slapstick che mai. Ma non è solo questione di movimentare la commedia o di renderla fisica, insistendo così sull'animalità degli uomini primitivi: è soprattutto per parlare di legami e di senso della famiglia che gli autori dei Croods spingono su questo pedale. Così, quella che poteva sembrare una trovata facile, in salsa Flinstones, si rivela invece un film spiritoso e sentimentale, nel senso positivo del termine.
Poi arrivano anche le scoperte e le invenzioni che punteggiano il viaggio degli eroi verso il "domani": il fuoco, le scarpe, le automobili (su quattro zampe), persino una sorta di navicella spaziale. Ma, ancora una volta, è più spettacolare la visione del cielo stellato (preclusa a chi non aveva il coraggio di affrontare la notte all'aperto) o quella dell'acqua del mare. La seconda trovata del film, infatti, è proprio quella di offrirci ogni scoperta come un'occasione di riscoperta, senza per questo farsi pedante o istruttivo (ma romantico sì)."

Ci siamo affidati alle parole utilizzate dal sito MyMovies per recensire questo straordinario cartone firmato DreamWorks. Straordinario non solo per l'ironia e la simpatia che viene portata in scena, ma soprattutto per i tasti che vengono toccati durante tutta la storia. 

Si parla di curiosità, la temuta curiosità  che papà Croods cerca di evitare a tutti i costi o...MUORI (citando il capofamiglia preistorico), ma che poi porterà i nostri protagonisti a vivere incredibili avventure.

Di rapporti famigliari, oltre al simpatico rapporto suocera-genero che nonostante tutto si vogliono bene, viene messo al centro dell'attenzione il rapporto padre-figlia, un rapporto difficile ma ricco di amore. Che, ammettiamo, provoca qualche lacrimuccia negli spettatori più adulti (in sala i deboli di cuore si sono commossi più volte!).

Il ruolo del padre come protettore della famiglia: una figura nel film che, soprattutto agli occhi della figlia adolescente, sembra rude e ingiusto, ma che man mano ci si accorge che ha a cuore il bene di tutti, e quella facciata da duro è dovuta solo al ruolo che si è imposto: far sopravvivere la tutti i costi i suoi cari, proteggerli dalla dura vita che esiste al di fuori della caverna. Ecco perchè secondo lui il nuovo è male: porta dolore perchè porta a situazioni che non si possono controllare.

Non vi vogliamo svelare di più altrimenti che gusto ci sarebbe ad andarlo a vedere, ma ve lo consigliamo caldamente! Non sono a chi ha bambini in età da cartoni, ma tutti dovrebbero vedere questo film di animazione, che porta a riflettere su grandi temi che aiutano nella vita di tutti i giorni!

P.S. Segnaliamo con orgoglio che alla realizzazione del divertentissimo lungometraggio animato ha partecipato un ex-alunno Argonne, Josè Guinea Montalvo, in qualità di "Lighting Technical Assistant at DreamWorks Animation".

lunedì 22 aprile 2013

Educare al bello


Vogliamo oggi proporvi questo articolo datato 17 Marzo, uscito su Avvenire. Un tema a noi caro: il senso del bello. I ragazzi di oggi, saranno gli adulti del domani. Senso critico, senso di ciò che abbiamo intorno, capire il bello delle COSE generali che ci circondano, dai monumenti che rappresentano la nostra storia, alla bellezza delle relazioni che ci costruiamo nella nostra vita. Tutto passa attraverso la bellezza. E secondo questo articolo, anche l'economia e la società girano meglio se c'è bellezza. Leggere per essere colti da improvvisa voglia di BELLO!



Sorella bellezza

Abbiamo un vitale bisogno della virtù civile ed economica della bellezza. La bellezza ci è necessaria per il rilancio della nostra economia e del lavoro, per una rifondazione della scuola e dell’università, e per curare veramente le vecchie e nuove forme di povertà involontaria e non scelta, che per essere sanate hanno bisogno della bella povertà di Francesco. L’economia e la civiltà italiane non hanno solo 'generato' bellezza (artistica, musicale, urbana ...): prima è stata la bellezza a generare economia e civiltà. Il Made in Italy, di ieri e di oggi, lo hanno fatto artigiani lavoratori formati dalla bellezza, cresciuti in mezzo alle nostre cattedrali, piazze, valli, mari e montagne. Gli input delle nostre economie non sono stati soltanto le materie prime, il capitale e il lavoro: nelle filiere produttive sono entrati anche Dante, Pinocchio, Fellini, storie, paesaggi, affreschi, chiese. Bellezza che è diventata anche design, auto, scarpe, abiti, cibo. 


Quando andiamo in Umbria o in Sicilia per turismo eno-gastronomico, non 'consumiamo' soltanto alloggio, cibo e vino, stiamo 'mangiando e bevendo' anche bellezza, accumulata in millenni di cultura e di paesaggio (nel prezzo dei beni ci sono componenti che l’imprenditore vende, ma che non son suoi: le tasse sono anche questo). Siamo stati capaci di creare valore economico finché siamo stati capaci di generare valore aggiunto in bellezza, fin quando l’abbiamo saputa raccontare, e poi tradurla anche in prodotti, in beni, in economia, benessere. Oggi stiamo consumando bellezza, ma non siamo capaci di riprodurla, se non in quantità minima. Dobbiamo tornare a produrre bellezza, se vogliamo tornare a produrre beni e lavoro. Ma la bellezza non si pianifica nelle business school né nei tavoli politici: nasce, fiorisce, dalla gratuità, da quella charis / grazia che è radice anche di bellezza (grazioso), e quindi dall’amore dei luoghi, delle città, dei territori. 


La bellezza è poi essenziale, sebbene oggi meno evidente, per una buona scuola e buone università, che sperimentano carestie non solo di risorse economiche e finanziarie, ma anche di bellezza. Per la formazione del carattere dei bambini e dei giovani dovremmo usare i luoghi più belli della città, oggi catturati dalle banche e dalle rendite, mentre gli studenti sono confinati in edifici sempre meno curati, spesso in un vero stato di degrado. Non so come si possa insegnare, incontrare e conoscere Socrate, Pitagora e Leopardi in luoghi brutti. 

Chi lavora nelle scuole sa – se vede bene – che le aule, le pareti, i giardini parlano e insegnano, sono 'colleghi' parlanti linguaggi non verbali, ma vivi come i nostri. Questo lo sanno molto bene i bambini, perché lo hanno imparato dalle fiabe e dai cartoni, dove anche i grilli, gli animali e le piante parlano, e dove le case hanno occhi e sanno sorridere. Anche per questo motivo i bambini non sono adulti con qualcosa in meno, perché hanno anche qualcosa in più degli adulti, che si perde crescendo. Senza questa consapevolezza è impossibile una vera reciprocità bambino-adulto. Ma se pochi minuti dopo aver letto un testo di Ungaretti, cercando di far vivere e sperimentare qualcosa del mistero della poesia (la poesia o la si vive e sente nella carne, o è esercizio inutile, se non dannoso), gli alunni e gli studenti fanno ricreazione in luoghi sciatti e degradati, quell’esercizio di libertà e di verità si disperde. Così il giorno dopo l’insegnante-Sisifo, deve ripartire da zero, o quasi. Non c’è scuola buona che non sia anche bella. 

Ma se c’è un luogo dove il bisogno di bellezza è ancora più urgente, questo è il mondo delle povertà. Nelle società passate, i luoghi più belli della città erano le cattedrali e le chiese, abitati dal popolo, quindi anche dai poveri. È stupefacente pensare che gli affreschi di Giotto e di Caravaggio adornavano anche, e soprattutto, i luoghi dei poveri, quelli della gente semplice, umile, analfabeta: il giogo duro delle loro vite brevi e piene di stenti era reso più leggero anche dal dono dell’arte di artisti e di mecenati, che con la bellezza restituivano e condividevano parte della loro ricchezza. 

Certo, in quelle società c’erano ancora molto lusso e molta ricchezza privata non condivisa con tutti né tantomeno con i poveri. Ma oggi, nonostante rivoluzione francese e democrazia, la ricchezza condivisa sotto forma di bellezza è ancora minore, perché la ricchezza che nasce dalla finanza finisce nei paradisi fiscali, o in residenze e beni di consumo privatissimi e invisibili. Le ville dei super-ricchi non abbelliscono alcuna città, perché la gente non le vede più, tantomeno le 'abita': sono ricchezze incivili, perché non sono nelle e per le città. Così quei lussi e quegli sfarzi non sono più autenticamente bellezza, e neanche per chi li possiede, perché la bellezza per essere tale ha bisogno dello sguardo dell’altro, e dello sguardo del povero. «Sposata hai una pena di non provar gioia alcuna che non sia di tutti»: c’è qualcosa di universale in questo bel verso di Davide Maria Turoldo. «Nella mia cooperativa – mi raccontava un imprenditore civile – voglio avere ottimi parrucchieri, perché – aggiungeva – se una signora anziana che si è fratturata un femore non si risente bella, non guarisce, e può lasciarsi morire». 

La bellezza vera è terapeutica: si può morire, o non guarire, anche per la bruttezza dei luoghi. Accogliere e aiutare persone povere in luoghi belli dà loro quella forza in più per fare il primo passo per riprendere il cammino, perché la bellezza risveglia la nostra parte migliore. Questa bellezza non è un bene di lusso, è un bene di prima necessità, che coabita con la sobrietà e la povertà. Riportiamo allora la bellezza nelle città, nelle imprese, nelle scuole, altrimenti ci mancherà la forza spirituale e simbolica per ricominciare.



Luigino Bruni

venerdì 19 aprile 2013

Sognatori a scuola, D'Avenia e i professori che aiutano a crescere



Leo è un sedicenne come tanti: ama le chiacchiere con gli amici, il calcetto, le scorribande in motorino e vive in perfetta simbiosi con il suo iPod. Le ore passate a scuola sono uno strazio, i professori “una specie protetta che speri si estingua definitivamente”. Così, quando arriva un nuovo supplente di storia e filosofia, lui si prepara ad accoglierlo con cinismo e palline inzuppate di saliva. Ma questo giovane insegnante è diverso: una luce gli brilla negli occhi quando spiega, quando sprona gli studenti a vivere intensamente, a cercare il proprio sogno. Leo sente in sé la forza di un leone, ma c’è un nemico che lo atterrisce: il bianco. Il bianco è l’assenza, tutto ciò che nella sua vita riguarda la privazione e la perdita è bianco. Il rosso invece è il colore dell’amore, della passione, del sangue; rosso è il colore dei capelli di Beatrice. Perché un sogno Leo ce l’ha e si chiama Beatrice, anche se lei ancora non lo sa. Leo ha anche una realtà, più vicina, e, come tutte le presenze vicine, più difficile da vedere: Silvia è la sua realtà affidabile e serena. Quando scopre che Beatrice è ammalata e che la malattia ha a che fare con quel bianco che tanto lo spaventa, Leo dovrà scavare a fondo dentro di sé, sanguinare e rinascere, per capire che i sogni non possono morire e trovare il coraggio di credere in qualcosa di più grande.

Avrete forse riconosciuto di che libro stiamo parlando, o dovrei dire film dato che di recente si parla di questa trama riferendosi all'appena uscito nelle sale "Bianca come il latte, rossa come il sangue". 

Alessandro D'Avenia è lo scrittore che ha partorito questo libro di successo, tanto di successo che la LuxVide non ha avuto dubbi nel convertirlo per il grande schermo, il che sta portando ancora più fama all'autore. Un romanzo che come dice l'autore stesso "...non è solo un romanzo di formazione, non è solo il racconto di un anno di scuola, è un testo coraggioso che, attraverso il monologo di Leo – ora scanzonato e brillante, ora più intimo e tormentato -, racconta cosa succede nel momento in cui nella vita di un adolescente fanno irruzione la sofferenza e lo sgomento, e il mondo degli adulti sembra non aver nulla da dire. [...] per offrire con energia al lettore più e meno giovane qualche risposta che, come ogni risposta vera, non aspira a essere definitiva, ma neppure esitante e rassegnata."

Un romanzo che ci aiuta a vedere i professori non solo come insegnanti di cultura, ma anche come maestri di vita. Maestri a 360°, educatori completi. Nessuna sostituzione nella figura materna o in quella paterna, una figura a parte, diversa e unica nel suo genere. I genitore ha un ruolo, i nonni hanno un altro ruolo ancora nella crescita del bambino, dell'adolescente, e i professori hanno un ruolo ancora diverso e specifico. 

Per chi volesse approfondire e scoprire di più dell'autore e dei sui libri, consigliamo di visitare l blog di D'Avenia, Prof 2.0, troverete molti spunti, curiosità e riflessioni del prof. più in voga del momento!




mercoledì 17 aprile 2013

Concorso Letterario Ares Faes: premiazione seconda fase



La premiazione della seconda fase ha chiuso ufficialmente il primo Concorso Letterario organizzato dal Faes in collaborazione con le Edizioni Ares. In gara ragazzi e ragazze di terza media con la passione per la scrittura.

Dopo una prima fase in cui i partecipanti al Concorso dovevano creare una storia partendo da un incipit ideato da Eleonora Fornasari, giovane autrice di programmi televisivi per ragazzi, i nostri aspiranti scrittori hanno ideato un nuovo racconto ambientato questa volta all'interno dell'open day della scuola.

Ad aggiudicarsi i prestigiosi premi sono stati Federico Scolari, Chiara Aramini e Sara Mantovani, rispettivamente primo, seconda e terza classificata.
Pubblichiamo di seguito un estratto dei primi tre racconti classificati.


Sara Mantovani, Istituto Gavia di Verona, terza classificata:
Camminarono ancora 10 minuti, ma stavano perdendo la speranza di trovare qualcosa, ed erano stanchi. Quando ormai avevano deciso di tornare indietro, apparve dal nulla una porta verde. I ragazzi non sapevano come comportarsi: come aveva fatto ad apparire la porta? Potevano fidarsi e aprirla o dovevano tornare subito a casa? Erano spaventati, ma anche molto curiosi. Giulia decise di comportarsi come se la porta fosse sempre stata lì, non apparsa magicamente: la aprì normalmente, mentre gli altri trattennero il fiato. Non successe assolutamente nulla. O almeno, in quel momento. Appena entrati, infatti, si bloccarono incantati. Che sensazione di pace che emanava quella grotta! Splendeva di luce, nonostante fosse chiusa, sottoterra, senza lampade e senza fessure da dove potesse entrare un raggio solare. Ma non era la cosa più stupefacente: al centro della grotta cresceva un albero maestoso. Al posto dei fiori o dei frutti sbocciavano gemme di tutti i colori e di tutte le forme, tutti magnifici. I ragazzi non riuscivano a muoversi, ancora storditi e paralizzati da quella visione. "Ma com'è possibile? Sto sognando? Lo vedete anche voi?". Erano sbalorditi.

Chiara Aramini, Istituto Marcello Candia di Milano, seconda classificata:
Giulia sbatté le palpebre e si avvicinò di più all’amica, mentre questa fissava il foglio con la bocca spalancata. Il discorso! Qualcuno l’aveva scritto, di certo non era stata lei, ma allora chi? Setacciò la sala con gli occhi e si accorse che c’era anche suo fratello. Biro era infatti seduto in seconda fila, con un sorriso stampato sulla faccia. Quando incrociò lo sguardo della sorella sollevò le braccia, pollice delle mani all’insù. Chiara rimase interdetta: possibile che suo fratello in uno slancio di generosità le avesse scritto il discorso? Abbassò gli occhi e scorse rapidamente il foglio. Eccolo lì, in terza riga, scritto a caratteri cubitali, il motto preferito di Biro:LA VITA E’ ROCK. 

Federico Scolari, Istituto Leonardo da Vinci di Basiglio (Mi), primo classificato:
Il botto della pistola dell’arbitro scatenò le urla e gli incitamenti del pubblico e gli atleti corsero il più velocemente possibile, con la chiara nuvoletta che usciva dalle loro bocche ansimanti. Phil, determinatissimo, spinse sulle sue gambe più che poté, fino quasi a inciampare sulla ingannevole ma tanto amata pista d’atletica. I suoi muscoli si tendevano sempre di più e la sua mente era libera da ogni pensiero, se non raggiungere il traguardo poco più avanti di lui. Un avversario lo precedeva, ma non era determinato come il nostro amico e, dopo tanto sforzo, Phil riuscì a vincere il testa a testa con l’avversario. Il ragazzo cadde stremato per terra; il terreno era fresco e umido, ma non sembrava influire sulla gioia del ragazzo. Quasi non credeva di essere riuscito nella sua impresa. La sua testa era confusa e il suo corpo stanco, ma era felicissimo nell’udire i complimenti degli amici a bordo pista. Eh già, c’erano proprio tutti: Chiara, Biro, Virginia, Giulia ed Elisa, tutti riuniti per contemplare la vittoria dell’amico. Fra le grida della folla Phil cominciò a pensare che il black-out dei giorni precedenti non fosse un caso perché tutto si svolgeva nell’esatto modo che desiderava: la folla, la pista, i suoi amici, la sua grande vittoria, il sottofondo della band del suo migliore amico con “We are the champions” se li era immaginati per molto tempo. 

lunedì 15 aprile 2013

Pippo Corigliano presenta il suo libro "Quando Dio è contento"


Appuntamento imperdibile con la cultura!
Lunedì 22 Aprile 2013, alle ore 20.45, presso l'Aula Magna dell'Istituto Maria Immacolata in via Visconti d'Aragona, Pippo Corigliano presenta il suo terzo libro "Quando Dio è contento - Il segreto della felicità". 


L'autore, giornalista e scrittore napoletano, ha due maestri/testimoni da cui ha imparato e a cui si ispira, Giovanni Paolo II e san Josemaría Escrivá, e lo si vede bene dal tono atletico della sua ascetica e dalla serenità "normale" che ha messo in pagina.  Alla fine, il «segreto della felicità» viene condensato in tre "finestre" da tenere sempre aperte: riscoprire la Santa Messa; confessarsi e confessarsi bene; leggere sistematicamente il Vangelo. 

Ma quali sono le persone felici che ha incontrato e perché sono felici? Il percorso comincia con l’incontro con una collaboratrice domestica dell’Opus Dei che, con la sua affermazione “Io sono contenta quando so che Dio è contento” fornisce il titolo al libro. Si passa poi alla bella lettera di una ragazza di vent’anni che scrive a suo padre, alla lettera, scritta tanti anni fa, di un tenente che prospetta un matrimonio felice che durerà sessant’anni.


Pippo Corigliano, al suo terzo libro dopo "Un lavoro soprannaturale" e "Preferisco il Paradiso", ha la simpatia contagiosa della maturità, di un uomo che, napoletanamente, sa vincere il pudore di parlare anche di sé ma come in terza persona, perché quella cosa lì l'ha vissuta solo lui e vuole metterla a disposizione degli «altri» che non sono un anonimo «prossimo», ma una cerchia di amici che si vuole allargare, perché in quanti più siamo, tanto più siamo felici.

venerdì 12 aprile 2013

La scuola 2.0? Forse ci stiamo arrivando davvero!

Stiamo davvero facendo passi avanti per la scuola 2.0? Gli studenti avranno iPad invece che libri? Il diario interattivo? Quanto dobbiamo aspettare? 
Beh per ora le statistiche non sono proprio a favore di questa innovazione, ma diciamo che stiamo lavorando in questa direzione. Eppure c'è qualcuno che non è completamente a favore di tutto ciò. Libri digitali vuole dire più spese per i genitori, più fotocopie illegali?

E voi che ne pensate? 

Per schiarirvi le idee a riguardo vi proponiamo un articolo uscito mercoledì 10 Aprile sul Corriere della Sera.


La scuola 2.0 – 
Le classi per la didattica multimediale sono solo 14.
di Valentina Santarpia – Corriere della Sera - 10 aprile 2013 – pag. 27

All'Italia maglia nera per il digitale nelle scuole. Le classi 2.0, cioè completamente attrezzate per la didattica multimediale, sono solo 14 in tutta Italia e l'Ocse, l'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, conferma: nella classifica generale dei 34 Paesi del mondo occidentale, siamo sopra solo a Romania e Grecia. Tant'è vero che «con l'attuale tasso di diffusione sarebbero necessari altri 15 anni per raggiungere i livelli registrati ad esempio in Gran Bretagna, dove l'80% delle classi può contare su strumenti didattici informatici». Per capirci: nella scuola elementare e in quella media solo il 6% delle classi è equipaggiato, contro una media Ocse del 37%. Abbiamo un computer a disposizione per ogni 15 studenti nella scuola primaria, uno ogni undici alle medie, uno ogni otto alle superiori. Il punto è che le risorse sono sempre troppo esigue: l'Italia spende ogni anno cinque euro a studente per la digitalizzazione, in tutto 30 milioni, pari allo 0,1% del budget del ministero per il capitolo Istruzione.

Eppure qualcosa si muove. La Lim, la lavagna interattiva multimediale, introdotta in quasi 70 mila classi sparse su tutto il territorio (21,6% di copertura delle aule), si sta rivelando un «cavallo di Troia» per il digitale tra i banchi. A settembre, ha annunciato il ministro Profumo, saranno installate altre 4.200 nuove Lim, che arriveranno così a 74 mila. Le cosiddette classi 2.0, quelle attrezzate per le lezioni multimediali, passeranno da 416 a 3 mila (+62%). E l'adozione, dall'anno scolastico 2014/2015, di libri esclusivamente digitali o in versione mista, dovrebbe tagliare i costi per le famiglie dal 20 al 30%. Ma spingere l'innovazione non è sempre semplice: al decreto che promuove gli ebook si oppone l'associazione librai di Confcommercio: «Altro che risparmio, i genitori degli studenti ora dovranno comprare pc e tablet: il libro digitale finirà per alimentare il mercato delle fotocopie illegali».


mercoledì 10 aprile 2013

Social media, famiglie e ragazzi, piccoli suggerimenti per non farsi sopraffarre


Social media: la rete può comunicare buoni consigli
Usarla anche per scambiare informazioni utili per le famiglie

“Ci sono due modi per reagire ai problemi. Il primo è chiudersi. Il secondo è aprirsi. Quando due anni fa un gruppo di pescatori gli raccontarono le drammatiche condizioni del Golfo del Messico per la perdita della petroliera Deepwater Horizon, Cesar Harada si mise a progettare una barca robot in grado di navigare tra le chiazze come un serpente portandosi via il petrolio. E lo ha fatto aprendosi: ha pubblicato il suo piano on-line, ha chiesto consiglio in rete su come migliorarlo e, adesso che funziona, il progetto protei è su Internet a disposizione di chiunque voglia replicarlo. "Dobbiamo condividere le informazioni" ha spiegato Harada, “sostituire la competizione con la collaborazione”. Questa cosa ha un nome preciso: si chiama open source, e open è la parola magica. Vuol dire aperto”. (Riccardo Luna, la Repubblica, 15. 07. 12).

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Accade, nonostante tutte le campagne di privacy che ci siamo sorbiti. Andrea ha sei anni. Da quando è iniziata la scuola, la mamma racconta su Facebook la giornata del figlio: la maestra «un po' in aria» e il «compagno povero», i capricci a mensa e la «bidella burina». Un’altra mamma ha raccontato nel suo profilo del brutto voto ricevuto dal figlio. Poi un' amica l' ha invitata a riflettere: «Che diresti se fosse lui a spiattellare su un sito i fatti tuoi?». Mamme (e papà) che raccontano troppo. Un po' come da sempre in ufficio, ma con qualche complicazione in più.
E’ vero che la mamma desidera la condivisione con il figlio, però non può sacrificare il senso del pudore del figlio, che è una difesa naturale della propria intimità.
(fonte:  Paolo Casicci, I segreti dei figli raccontati su facebook, la Repubblica, 21 ottobre 2012. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/10/21/segreti-dei-figli-raccontati-su-facebook.html?ref=search).
Redazione www.comunicareinfamiglia.it




La fuga non è mai la soluzione. Si deve stare lì e "bonificare" con pazienza, fermezza e senso di giustizia
Una lettrice di Io Donna (12.05.12) scrive: “Dopo un po' che stavo in rete mi sono tolta da tutti i social network. C'è troppo odio, troppa cattiveria, troppi insulti gratuiti, troppa irresponsabilità. Uno va lì e crede di poter dire quello che vuole. Facevo il pieno di cattiveria tutti i giorni, e mi avvelenava. A un certo punto non ce l'ho fatta più...”
Lo so, lo so – risponde Marina Terragni - . Si tratta di cyberstalking, fenomeno conosciuto benissimo da noi blogger donne. Ma io non credo che si debba scappare. La fuga non è mai la soluzione. Si deve stare lì e "bonificare" con pazienza, fermezza e senso di giustizia. Chiamiamola autodifesa non-violent.
Bonificare, rendere buono o meno pericoloso un terreno insidioso. In situazioni  che “avvelenano” una soluzione è quella di scappare: prudente, se rischio di essere contaminato. In questo modo però il veleno dilaga, non ha chi lo fermi. Se sono abbastanza immunizzato posso provare a mettere parole commestibili e nutrienti in mezzo alle parole tossiche scagliate da altri. Vale per il cyberspazio, ma anche per molte altre situazioni della vita in cui incontriamo altre persone che non sempre sono guidate da intenzioni buone.



Internet in famiglia: i rischi e le precauzioni

Un’indagine europea ha fotografato il rapporto con Internet di oltre 25 mila ragazzi

“Antonio Brighenti ha 49 anni e due figli adolescenti: «La raccomandazione che faccio loro più di frequente quando escono di casa? Casco in testa e se fate tardi telefonate». Scusi, e quanto a Internet? «Beh, cosa devo raccomandare? Di non starci troppo, forse».
La strada virtuale fa meno paura di quella reale. Almeno ai genitori italiani. Illusi, analfabeti digitali o solo meno apprensivi rispetto agli altri europei?. Otto genitori italiani su dieci lo hanno dichiarato ai ricercatori del progetto Eu Kids Online: «È altamente improbabile che mio figlio possa imbattersi in una situazione spiacevole su Internet». (Alessandra Mangiarotti, La 27a ora).
L’indagine, finanziata dall’Unione europea e coordinata dalla London School of Economics and Political Science, ha fotografato il rapporto con Internet di oltre 25 mila ragazzi tra i 9 e i 16 anni (e loro genitori) di 25 Paesi europei. Ne viene fuori un ritratto con abitudini e rischi: dalla pornografia al bullismo, dal sexting (l’invio di messaggi a sfondo sessuale) agli incontri con persone conosciute online. 
L'uso di Internet è profondamente radicato nelle abitudini dei ragazzi. Il 93% va online almeno una volta alla settimana, in Italia il 60% dei ragazzi usa Internet tutti giorni o quasi. I bambini cominciano a usare Internet sempre prima, tra i sette e i 10 anni.

Continua a leggere l'articolo qui.


Marco Manica

lunedì 8 aprile 2013

Educazione omogenea a scuola: differenze che fanno... la differenza!



In tutto il mondo circa 40 milioni di ragazzi e ragazze usufruiscono di un’educazione differenziata in base al sesso. I dati sull’efficacia di tale modello educativo sono abbastanza documentati. Per esempio, in Australia esistono attualmente 1479 scuole differenziate, delle quali 139 sono pubbliche. Nel 2001 si è conclusa la ricerca dell’Australian Council for Educational Research, un organismo indipendente di ricerca che ha seguito 270.000 studenti nell’arco di sei anni. Il rapporto ha concluso che gli alunni educati in classi omogenee avevano ottenuto risultati scolastici tra il 15 e il 22% migliori rispetto ad alunni appartenenti a scuole miste.
In Gran Bretagna, invece, ci sono 1902 scuole differenziate per ragazzi e per ragazze: 416 state schools e 676 independent schools. Gli ultimi risultati dicono che 81 delle 100 scuole con i migliori risultati sono single-sex. 
La proposta dell’educazione differenziata è un progetto che favorisce l’inclusione sociale, come avviene per esempio dal 2002 in quartieri di New York quali Harlem e Bronx, dove il 70% della gente vive sotto i limiti di povertà. E ciononostante grazie all’educazione differenziata vi si ottengono, per esempio, indici di accesso all’università superiori alla media di tutta la città. Questi e altri risultati sono il frutto della personalizzare dell’attività educativa, finalizzata alla valorizzazione di ciascun alunno/a, con le sue concrete peculiarità, con la sua originalità, con il suo essere maschio o essere femmina.
Tenere conto a scuola del fatto che neurologia, genetica e psicologia evolutiva suggeriscono che alcune differenze tra maschi e femmine sono innate e non prodotte dalla società è il presupposto per garantire realmente pari opportunità sociali e lavorative agli uomini e alle donne di domani. In questa prospettiva, l’educazione differenziata prevede modalità e strategie didattiche differenti, ma il programma per i ragazzi e le ragazze è lo stesso, la preparazione che si esige ha la medesima qualità, il livello dei docenti è analogo.
Negli ultimi decenni si sono moltiplicate le ricerche, che hanno offerto informazioni preziose per l’attività docente.
Per esempio, è stato osservato che i maschi sono più avventati, mentre le femmine più  riflessive. Ai ragazzi, inoltre, piacciono l’azione, la competizione, gli oggetti inanimati e sono maggiormente sobri nel manifestare i propri sentimenti. Lo sviluppo intellettivo, affettivo, verbale, esperienziale e maturativo di una ragazza di quattordici anni equivale a quello di un ragazzo di diciassette o diciotto anni. Non è strano quindi che le prestazioni scolastiche di molti  ragazzi peggiorino a causa del continuo confronto con le ragazze, che produce su di loro un effetto inibitorio, con conseguenze negative anche in ambito relazionale. 
Tenere conto di questi dati, spesso fa la differenza. E’ stato ribadito che occorre una specifica formazione dei docenti alle tematiche della valorizzazione delle specificità femminili e maschili, ma anche che la semplice separazione dei sessi non è di per sé sufficiente a garantire una reale educazione differenziata.


venerdì 5 aprile 2013

Essere mamma vuol dire (anche) dover rispondere a 288 domande al giorno!


Pubblichiamo oggi un interessante e divertente articolo, a firma Lia Celi, tratto dal blog del Corriere della Sera "La ventisettesima ora".

Scacchi, cruciverba, traduzione dal latino, Ruzzle, equazioni di vario grado, il braintraining del dottor Kawashima: innumerevoli e spesso patetiche sono le strategie con cui gli adulti tentano di arginare lo spappolamento del cervello, impresa quasi altrettanto disperata che frenare il tracollo di pancetta e zone limitrofe. Non si rendono conto che le uniche vere assicurazioni contro il rilassamento dei neuroni in età adulta sono quelle che viaggiano sui seggiolini posteriori delle monovolume.
Noi mamme invece lo sappiamo benissimo: avere figli piccoli significa vivere con tutti i lobi del cervello attivati contemporaneamente. Perché ogni giorno veniamo sottoposte dai pargoli a un’immane gragnuola di domande: 288 secondo uno studio inglese, con una media di 23 all’ora, una domanda in più delle 22 cui deve rispondere il premier David Cameron durante il question-time. Con la differenza che le domande per Cameron vertono presumibilmente su politica ed economia, mentre quelle dei bambini toccano anche storia, scienza, arte, filosofia e religione.
«Perché l’acqua è bagnata?»; «Perché il gatto non può parlare mentre io posso fare miao?»; «Perché i preti hanno la gonna?»; «Perché le mamme non hanno la barba?». Roba che, non dico Cameron, ma perfino Churchill avrebbe sospeso la seduta per manifesta incapacità. La signora Thatcher, invece avrebbe tenuto botta. Non in quanto Iron Lady, ma come madre di due figli, abituata quindi al continuo question-time domestico che, secondo la ricerca britannica, rende le genitrici più sveglie e mentalmente reattive non solo di un politico conservatore ma anche di concorrenti di quiz, insegnanti di scuole elementari e medie, medici e allenatori di calcio in conferenza stampa.
Nel Regno Unito il top dell’inquisitività, pare, sono le bimbe sui quattro anni (390 domande al giorno) i meno curiosi i ragazzini sui nove (con 144), già avviati a diventare come i loro padri, che quando sono a casa di domande non vogliono farne né sentirne, e se interpellati rispondono «chiedi alla mamma». Con l’età le richieste calano di numero ma crescono in difficoltà, mettendo in crisi l’82 per cento delle madri, che si vedono soppiantate da zia Wikipedia come fonte di sapere enciclopedico. La ricerca inglese non spiega se il 18 per cento di madri che tiene duro sia composto di pozzi di scienza, di smanettatrici più veloci dei figli a googlare Wikipedia o di clamorose facce toste che rispondono la prima cosa che gli viene in mente, pur di zittire le piccole pesti. 
Nella mia esperienza di italiana conosco madri di tutti e quattro i tipi: le competenti ma non troppo, le onniscienti, le wikipediche e le taglia-corto. Le conosco perché, a seconda delle situazioni, sono io questo o quel tipo di madre. Onnisciente per la figlia di quinta elementare, che si stupisce sempre di come io e il suo sussidiario sappiamo le stesse cose; competente quanto basta per la figlia di seconda media; record-woman di ricerca su Wikipedia per far bella figura con la figlia di prima superiore (ma poi per essere credibile mi tocca ammettere che ho cercato su Wikipedia); sbrigativa e bluffatrice con il figlio di cinque anni. E per un motivo molto semplice, che spero mi varrà la comprensione delle lettrici: la sua quota giornaliera di domande verte per lo più su un solo argomento, e cioè il mio modo di guidare.
Anziché consultarmi sui temi cari a ogni bravo bambino inglese, tipo «perché il cielo è azzurro?» o «di che cosa è fatta l’ombra?» mi fa domande tipiche da marito italiano, tipo «Perché fai questa strada invece dell’altra, che è più corta? Perché non superi quel camioncino? Perché vai così forte? Sei in riserva, perché non fai benzina? Non vedi che hai parcheggiato storto?». E non serve nemmeno più zittirlo con la compilation dello Zecchino d’oro; apprezza di più le istruzioni del navigatore satellitare, che soddisfano la sua innata voglia di efficienza e lo fanno appisolare in pochi minuti.
Ho la fortuna di avere un partner non troppo fiducioso nella vastità della mia cultura — dico fortuna perché questo lo induce a rispondere lui ai figli su parecchi argomenti sui quali teme potrei dare risposte sballate, dalla storia del rock (non ne so mezza) al fumetto (è il suo mestiere, non il mio), da alcune fasi della politica dell’ultimo ventennio (su cui le nostre vedute non sempre coincidono) alla meccanica del motore a scoppio (per la quale provo un singolare disinteresse). Questo mi solleva da una buona fetta delle 288 domande quotidiane, e offre anche a lui una chance di usufruire del mio brain-training bambinesco. Meglio approfittarne. 
Fra qualche anno la nostra palestra intellettuale chiuderà. Da un giorno all’altro l’unica domanda che ci porranno i nostri figli è «mi dai venti euro?» 288 volte al giorno. E sarà troppo tardi per imparare a giocare a scacchi.

mercoledì 3 aprile 2013

Sport, teenagers e pagelle



TEENAGERS CHE FANNO SPORT HANNO UNA PAGELLA PIÙ BRILLANTE
I teenagers che fanno sport non solo stanno meglio in salute ma prendono anche voti migliori a scuola. Lo dimostra una ricerca che conferma l’antico detto “mens sana in corporesano”. Lo studio, svolto dall’università del Tennessee, è stato condotto su 312 studenti delle scuole medie e fa luce sul rapporto fra rendimento scolastico e livello di fitness dei ragazzi.
''Al più alto punteggio di fitness corrispondono migliori capacità di apprendimento e di rendimento scolastico'' spiega Dawn Coe che ha diretto l'indagine. ''Gli studenti con il più basso punteggio di fitness, invece, avevano anche le peggiori performance in classe e voti più bassi''.



Riprendiamo questo articolo dal sito www.comunicareinfamiglia.it, sito interamente dedicato alle famiglie, alle coppie, alla comunicazione familiare! Vi consigliamo di andarle a vedere, interessantissimi articoli vi aspettano! 


lunedì 1 aprile 2013

Adolescenti a caccia di risse

Riproponiamo qui questo interessante e delizioso post apparso sul blog di Elastigirl, alias la giornalista Claudia de Lillo, il 30 marzo scorso.

per tentativi ed errori

a roma. elastigirl e gli hobbit in zona colosseo. stamane.
“io qui non ci voglio stare”
“perché, hobbit grande?”
“perché il colosseo non mi piace, camminare non mi piace, stare con questi due sfigati non mi piace”
“quando fai il preadolescente orrido sei veramente noiosissimo. e non voglio che parli così. senza contare che ‘sfigati’ non voglio sentirtelo dire. né rivolto ai tuoi fratelli né a nessuno”
“sgrunt”
“si può sapere perché fai così? fino a cinque minuti fa eri tutto contento e simpatico, chiacchieravamo e giocavamo tutti insieme. e adesso? cosa è successo?”
“fatti miei. e comunque io qui non voglio starci”
“e invece qui ci stai, che ti piaccia o no. fino a quando non sarai autonomo e indipendente, ti tocca sottometterti alle regole della tua mamma e del tuo papà, anche se non ne hai voglia. e ti pregherei di smetterla di infelicitarci la passeggiata ché io, lo hobbit medio e il piccolo vogliamo goderci la giornata. chiaro?”
“mpf!”
“piantala di correre avanti! c’è un sacco di gente e se ci perdiamo è un vero pasticcio e non credo che saresti molto contento di restare da solo in questo caos”
“tornerei a casa da solo. che problema c’è?”
“ho detto basta”.
lo hobbit grande ogni tanto si trasforma in contestatore molesto. pare sia normale e che sia solo l’inizio. tuttavia a volte è difficile. è stato difficile stamane, al colosseo, perché elastigirl era da sola e c’erano gli altri due hobbit che volevano e meritavano attenzioni e una marea di gente intorno in cui era facile essere inghiottiti. e a un certo punto lei avrebbe voluto un consiglio, una bacchetta magica, un’arma segreta o la chiave d’accesso per capire cosa c’è dentro la testa di uno hobbit in crescita. e a un certo punto ha avuto un’idea, un’idea un po’ da femmina e, chiedendosi se una cosa tanto da femmina avrebbe funzionato con un maschio malmostoso e inquieto, ci ha provato.
“ehi, tu. fermati e vieni qui”, gli ha detto, prendendogli il viso tra le mani e guardandolo occhi negli occhi, naso contro naso.
“che cosa vuoi?”
“voglio che tu sappia che anche quando fai così e ti sforzi di essere il ragazzo più orrendo dell’universo, io ti voglio un sacco, ma proprio un sacco di bene comunque. perché non posso farne a meno. e pensa quanto bene ti devo volere per amarti anche in questa versione detestabile. ora che lo sai, fai un po’ quello che ti pare. tanto io continuerò a volerti bene in ogni caso”.
“…”
“…”.
si procede per tentativi ed errori. a volte si vince a volte si perde. stamane, dopo questo tentativo, mister hyde è tornato dottor jekyll. e, da quel momento in poi, è stato simpatico, amabile e molto divertente. è andata bene. questa volta.